Discutiamo di scuola ma non così

Racconta una bugia e continua a ripeterla, qualcosa rimarrà comunque nella testa della gente”.

E’ un vecchio sistema per contrastare i progetti e le riforme che non si vogliono, al quale non è sfuggito nemmeno Piero Marchesi in un suo recente commento sulla Scuola che verrà, che da lunedì sarà discussa in Gran Consiglio.
Il presidente UDC in poche righe ha messo in riga almeno 6 fakenews (complimenti per la sintesi) che non possono essere lasciate passare senza reagire: mancato coinvolgimento, progetto funzionale alle prossime elezioni cantonali, scelta à la carte delle materie da parte degli allievi, obiettivo della parità di arrivo e non di partenza, più competenze sociali e meno competenze “istruttive”, più potere centralista al Dipartimento.
Caro Marchesi, le cose non stanno così.
1. Il coinvolgimento di insegnanti, specialisti, genitori e politica c’è stato, eccome, alle due consultazioni molto ampie hanno partecipato in molti e molte delle indicazioni presentate sono state integrate nel modello finale, tanto che oggi le associazioni magistrali, i direttori scolastici e la Conferenza dei genitori appoggiano la riforma.
2. Le prossime elezioni non c’entrano, noi volevamo già partire a settembre 2017 e se la discussione avviene oggi è perché il Gran Consiglio ci ha chiesto un anno in più.
3. La scelta à la carte delle materie da parte degli allievi non so dove l’ha letta, forse si riferisce ad un’estensione delle opzioni in III e IV media, elemento che, a proposito di coinvolgimento, è stato plebiscitato da tutti come positivo nel corso della seconda consultazione.
4. La parità di arrivo invece della parità di partenza, mi spiace dirlo, è una menzogna colossale, da sempre il progetto intende semplicemente permettere agli allievi di andare là dove le loro risorse permettono loro di andare, considerando e sostenendo le loro individualità dentro un contesto scolastico unico, dove tutti si incontrano e non c’è separazione fisica.
5. La questione delle competenze sociali o disciplinari non è trattata in questo progetto, è oggetto del piano di studio già in fase di implementazione, ma non sposta affatto il centro dell’insegnamento verso le competenze sociali, semmai integra bene tutte le competenze, come la scuola del resto fa già da molti decenni.
6. Infine il presunto centralismo del Dipartimento, di cui nel progetto non vi è alcuna traccia e che risulta del tutto campato in aria.

La proposta Pamini-Morisoli, alla quale il Consiglio di Stato ha risposto da oltre un anno con un messaggio di quasi 30 pagine, che tra l’altro ripropone un parziale finanziamento delle scuole private parificate e un’estensione del sistema dei livelli a molte discipline e nell’arco di tutta la scuola media invece del superamento di questo modello, dovrà essere anch’essa trattata dal Parlamento, ma va in direzione diametralmente opposta al progetto in discussione da domani in Parlamento, che si inserisce invece nel solco della tradizione inclusiva della nostra scuola dell’obbligo.
Nel nostro Paese, come dappertutto, ci sono certamente più visioni della scuola a confronto; è lodevole discutere pubblicamente di questioni che interessano la collettività, ma bisognerebbe farlo sulla base di dati veri, non di argomentazioni inventate o fallaci.

Le borse di studio e il ceto medio

Alcuni movimenti giovanili si stanno organizzando per chiedere uno sforzo maggiore nel settore delle borse di studio, a partire dalla constatazione secondo cui la situazione finanziaria del Cantone è migliorata, per cui lo spazio per borse più generose ci sarebbe. Il ragionamento ha una sua fondatezza, considerato che anche in questo ambito in passato sono stati chiesti alcuni sacrifici, segnatamente permettendo al Consiglio di Stato di decidere se trasformare o meno 1/3 della borsa di studio per gli studenti di master in prestito. Dal 2015, su mia insistenza, il Ticino ha un’apposita legge inerente a queste prestazioni, che precedentemente erano decise in maniera quasi unilaterale dal Consiglio di Stato. I margini per migliorarla ci sono ed il mio Dipartimento sta studiando le misure possibili, di cui il governo discuterà tra qualche settimana in vista del prossimo anno scolastico. Va comunque detto che nel confronto intercantonale il sistema ticinese risulta tra quelli virtuosi, erogando prestazioni sopra la media nazionale. Su un punto la contestazione dei giovani risulta invece poco fondata, quando “rimpiange” il metodo di calcolo precedente, basato sul reddito imponibile, invece di quello attuale basato sul reddito disponibile. Il metodo del reddito imponibile è stato abbandonato da tempo quale parametro di riferimento per le prestazioni a carattere sociale, perché le diverse deduzioni fiscali introdotte a partire dai pacchetti di Marina Masoni hanno reso questo dato poco significativo quale misuratore della capacità finanziaria dei contribuenti. L’esempio che illustra bene questo fenomeno è quello della persona che dispone di fr. 150’000.– annui, investe fr. 120’000.– per una ristrutturazione energetica di casa propria deducendoli totalmente dalle imposte e si ritrova con un imponibile di fr. 30’000.–; un importo che non rappresenta la sua vera capacità finanziaria, ma che ai tempi in cui si usava il parametro del reddito imponibile gli permetteva di accedere alla borsa di studio. Furono proprio casi come questi ad indurre il parlamento, tutti d’accordo, a passare dal concetto di reddito imponibile a quello di reddito disponibile per l’erogazione delle prestazioni sociali e poi, più tardi, per quella degli aiuti allo studio. La critica secondo cui il nuovo sistema di calcolo non considera il ceto medio è anch’essa poco fondata, anche se andrebbe prima definito il concetto piuttosto “ballerino” di ceto medio. Facciamo tre esempi di applicazione del sistema oggi vigente per capirci. Con il sistema attuale una famiglia di 4 persone (coppia con due figli di cui uno all’università fuori Cantone) con entrate lorde annue per fr. 130’000.– e una sostanza netta di fr. 50’000.– potrebbe avere un reddito disponibile di ca. fr. 65’000.–; per questa famiglia la quota legale da destinare alla formazione del figlio ammonta a fr. 26’500.-, importo superiori ai costi di formazione di ca. fr. 22’000.-. In questo caso il Cantone non riconosce alcuna borsa di studio. Nel medesimo caso familiare ma con entrate lorde annue per fr. 100’000.–, il reddito disponibile diminuisce a ca. fr. 35’000.–; in questo caso la quota legale da destinare alla formazione del figlio è di fr. 11’500.–, per cui mancano fr. 10’500.– per coprire i costi di formazione di ca. fr. 22’000.–. Questa lacuna di reddito viene colmata dalla borsa di studio, che sarà di fr. 10’500.–. Infine, sempre prendendo la stessa famiglia ma stavolta con entrate lorde annue per fr. 70’000.–, il reddito disponibile diminuisce a ca. fr. 10’000.–; in questo caso la quota legale da destinare alla formazione del figlio è di fr. 3’000.–, per cui mancano ben fr. 19’000.– per coprire i costi di formazione di ca. fr. 22’000.–. In questo caso la borsa riconosciuta dal Cantone sarà quella massima di fr. 16’000.–, alla quale potranno aggiungersi fr. 3’000.– di prestito. Aggiungo che, grazie alle generose deduzioni fiscali ticinesi per figli agli studi, la prima famiglia, quella che non prende alcuna borsa, avrà un beneficio in termini di minori imposte più elevato di quello della seconda e decisamente più elevato di quello della terza. La combinazione di borse di studio e di deduzioni fiscali per figli agli studi allarga quindi gli aiuti statali in questo ambito. Gli aiuti allo studio vanno sempre adattati alla situazione e possono essere potenziati, ma questo processo va fatto sulla base di calcoli ben calibrati, per evitare che il risultato finale sia diverso da quello desiderato. Per lavorare in questa direzione io ci sono.

Chi vuole distruggere la Svizzera?

È piuttosto sorprendente osservare come alcune cerchie che si definiscono particolarmente vicine ai valori del nostro Paese abbiano deciso di attaccare frontalmente il modello di coesione e di multilinguismo che esso rappresenta. Lo hanno fatto iniziando la cosiddetta “guerra delle lingue” oltralpe, con l’intenzione di cancellare l’insegnamento del francese dalle scuole a favore dell’inglese, una “guerra” che stanno perdendo, e ora lo stanno facendo con l’iniziativa No Billag, che punta né più né meno a far scomparire la Ssr e le sue filiali regionali, Rsi compresa, dal panorama dei media elvetici. Quasi che la Svizzera festeggiata il 1° agosto con falò e bandiere o con il recupero di alcuni sport ancestrali possa poi essere dimenticata gli altri giorni dell’anno, costringendo gli svizzeri a parlarsi tra loro in inglese o a guardare le televisioni estere o quel che resterà di quelle locali per essere informati, malamente, sul loro Paese. Non moltissimi anni fa la Svizzera era orgogliosa di essere Paese multilingue, di avere avuto radio storiche importanti come Radio Monte Ceneri, Radio Beromüster, Radio Sottens, di aver saputo costruire un Paese su alcuni servizi importanti, le Ptt, le Sbb/ Cff/Ffs, simboli di efficienza e puntualità, di raccontare la nostra storia e il nostro presente agli svizzeri e a chi ci vedeva e ci guarda dall’estero in quattro o cinque lingue, schwiitzerdütsch compreso, attraverso le reti televisive e radiofoniche della Ssr. Un fiore all’occhiello la Ssr, un’azienda pubblica che ha saputo costruire e gestire al contempo tre network radiotelevisivi (uno in tedesco, uno in francese e uno in italiano, con una finestra in romancio) in un Paese di 8 milioni di abitanti, quando all’estero (Italia, Francia, Germania, Austria, Inghilterra) si trattava di crearne e gestirne uno solo, in una sola lingua e potendo contare su un numero di utenti molto superiore. Un’impresa che attraverso la radio e la televisione ha accompagnato le nostre comunità per decenni attraverso la storia e i tanti cambiamenti, grandi e piccoli. Un patrimonio prezioso, fatto di cronaca, notizie, intrattenimento, sport, cultura, giochi, personaggi, documentari, film, radiodrammi, una presenza forte e professionale, pur in un contesto così piccolo e plurilingue come il nostro. Malgrado questo pilastro della Svizzera moderna, c’è chi vuole gettare tutto alle ortiche, facendo tabula rasa. La Ssr non sopravvivrà in caso di cancellazione del canone, inutile speculare o far finta di nulla. Nessuna impresa o azienda può sopravvivere se perde di colpo tre quarti dei suoi introiti senza alcuna possibilità legale di compensarli. Una verità drammatica, ancor più vera per il servizio nelle lingue minoritarie (francese, italiano e romancio). Se passasse l’iniziativa, il servizio radiotelevisivo che conosciamo al di qua delle Alpi e che diffonde l’italiano anche oltre Gottardo semplicemente scomparirebbe. Noi svizzero italiani ci ritroveremmo in una condizione che non abbiamo mai conosciuto, paragonabile, per fare un esempio, a quella dei valtellinesi, con al massimo delle reti radiofoniche o televisive locali piuttosto minimali, costretti per il resto a dipendere da quanto arriva da Milano e da Roma, che per loro sono ancora punti di riferimento nazionali, ma non lo sono per noi. E allora diciamo di no. No a questo colpo di spugna su un pezzo importante della Svizzera, no a questa operazione profondamente offensiva del nostro presente e della nostra storia nazionale, no a questo modo di bistrattare quelle istituzioni che hanno fatto del nostro Paese quel luogo particolare che ci piace, no alla consegna del nostro futuro alle radio e televisioni estere, no alla trappola No Billag.

(pubblicato da LaRegione del 3.1.2018)

Un sano confronto democratico

Domenica la Conferenza cantonale del Partito socialista sarà chiamata a decidere se aderire al comitato promotore del Referendum sulla Riforma fiscale e sociale o se lasciare ai suoi membri libertà di referendum e di voto.
All’interno del Partito vi sono diverse visioni sulla direzione da intraprendere in questa circostanza, che sarà un momento di dibattito e non una singolar tenzone. Questa divergenza di vedute non è affatto sorprendente, considerata la naturale sensibilità di tutta la sinistra alle tematiche poste sui due piatti della bilancia della riforma proposta e ritenuto che, comunque la si veda, ci si trova di fronte a un dilemma. Da una parte degli sgravi fiscali, che nessuno a sinistra auspica, me compreso. Dall’altra parte delle misure sociali che tutti vorremmo. Ciò che si dovrà decidere è se la maggioranza del Partito preferisce dire di no a qualsiasi tipo di accordo che coinvolge la fiscalità, anche a costo di rinunciare a considerevoli misure sociali previste in contropartita, oppure se si è legittimati a trovare degli accordi con altri al fine di ottenere un miglioramento concreto sul piano sociale.
Non voglio qui entrare nuovamente nel merito delle varie argomentazioni espresse all’interno del Partito pro e contro il Referendum. Tutto è stato apertamente pubblicato, come trasparenza vuole, sul sito ufficiale (http://www.ps-ticino.ch/conferenza-cantonale-del-ps-riforma-fiscale-sociale/). Nemmeno intendo rispondere a qualche esagerazione di troppo contro chi vede questo accordo di buon occhio. Saranno i partecipanti al dibattito democratico interno al Partito a determinare quale sarà la linea da adottare.
Voglio piuttosto sottolineare come, nonostante le parole anche forti e ingenerose che in questi giorni sono state sollevate da alcuni anche nei miei confronti, io viva quest’attesa con serenità. Perché, vada come vada, sarà la democrazia a parlare. Anche se a volte fuori ci guardano con sospetto, io credo sia una fortuna che all’interno del nostro Partito ci siano ancora – come ci sono sempre stati – dei dibattiti effettivi. Significa che non si guarda in faccia a nessuno e ognuno dà il massimo per difendere ciò che a mente propria crede sinceramente essere la miglior soluzione in difesa di quei valori che tutti condividiamo. La presenza di dibattiti accesi sui temi è segno di un Partito vivo, ribollente, forte e con voglia di combattere. E questa vitalità che contraddistingue tutta la sinistra è una cosa buona, molto meglio che la monotona apatia che regna altrove. La vera democrazia, quella che mi piace, è quella che porta a scaldarsi durante il dibattito, anche tra amici, per poi lasciar spazio alla distensione al termine dei lavori, quando – andata come è andata – si sa che tutti hanno dato tutto e che la decisione – anche se magari non pienamente condivisa – è frutto di una reale e approfondita riflessione.

Salario minimo, ma non così

Il progetto di legge sul salario minimo fissa in una forchetta tra 18.75 franchi e 19.25 franchi all’ora i salari minimi in Ticino. Il calcolo fatto per arrivare a queste cifre considera quanto una persona sola potrebbe aver diritto in base ai vari sistemi di prestazioni sociali in vigore, segnatamente quello retto dalla Legge sull’armonizzazione delle prestazioni sociali e quello retto dalla Legge federale sulle prestazioni complementari AVS/AI.
Dal mio punto di vista questo calcolo è errato, perché si tiene conto del fabbisogno del solo lavoratore e non della sua famiglia.
Se è chiaro che il salario remunera una prestazione lavorativa indipendentemente dal carico familiare del lavoratore, è altrettanto chiaro che il sistema sociale conta le bocche da sfamare ed eroga importi diversi a dipendenza del numero delle persone che compongono l’economia domestica. Una modalità per trovare un punto di convergenza tra questi due sistemi diversi tra loro potrebbe essere un ragionamento sul fabbisogno dell’economia domestica media (oggi ca. 2.2 persone) da soddisfare mediante un salario a tempo pieno.
Con un simile parametro i dati della forchetta si alzano ed arrivano al minimo a poco meno di 21 franchi all’ora.
La distanza tra quanto proposto e quanto da me auspicato era troppa per poter condividere la nuova legge così come presentata. Il salario minimo è una necessità, ma deve essere dignitoso e permettere ad una famiglia di vivere con qualcosa in più di quanto non eroghi il sistema sociale.
La prima ridistribuzione della ricchezza avviene pagando correttamente il lavoro prestato; il sistema sociale interviene dopo in caso di difficoltà, disoccupazione, anzianità, invalidità ecc., non a sostegno di un’economia che non riesce a pagare salari adeguati per poter vivere.
Se 21 franchi all’ora sono troppi, alternativamente si abbassino i costi, per esempio quelli degli affitti, scandalosamente alti in periodi di tassi bassissimi, o quelli della cassa malati, divenuti insostenibili perché ostaggio di un “mercato” al rialzo dove nessuno pilota il sistema: due battaglie sacrosante da continuare a condurre accanto a quella del salario dignitoso.

Iniziativa 99%

In Svizzera l’1% più ricco della popolazione possiede oltre il 40% del capitale complessivo. Ogni anno, grazie ai loro ingenti patrimoni, queste persone beneficiano di importanti redditi da capitale nella forma di dividendi, affitti e interessi, che possono poi reinvestire e far fruttare ulteriormente, accumulando così via via sempre maggiore ricchezza, senza necessariamente dover lavorare come tutti noi.
Per rispondere a questa distorsione del sistema i Giovani socialisti hanno lanciato l’iniziativa detta “99%”, dallo spirito chiaro e condivisibile, che vuole giustamente attirare l’attenzione della popolazione sulla grande iniquità vigente in tema di distribuzione della ricchezza.
L’iniziativa 99% chiede di ridistribuire in maniera più equa il benessere costruito da tutta la società, prelevando di più da chi guadagna centinaia di migliaia di franchi all’anno senza muovere un dito e dando di più a coloro che, lavorando duramente, contribuiscono attivamente a generare ricchezza, ma ne beneficiano solo in minima parte. L’iniziativa chiede di aumentare l’imposizione fiscale dei redditi da capitale delle persone particolarmente facoltose, applicando un coefficiente del 150% al di sopra di una certa cifra, per poi reinvestire e ridistribuire queste maggiori entrate fiscali a beneficio di chi ha redditi normali.
Quando su due piatti della bilancia da un lato ci sono 99 cubetti di polistirolo e dall’altro un cubetto di piombo, ben si capisce quale sia la differenza tra i due tipi di cubetti. Fuor di metafora, è evidente che esiste un abisso tra il 99% dei cittadini che lavorano e guadagnano normalmente e il restante 1% di cittadini esageratamente ricchi. Non si tratta di per sé di mettere in discussione le differenze, ma almeno di pretendere che chi ha moltissimo partecipi convenientemente al finanziamento delle necessità della collettività.
La proposta dunque solleva un tema importante e ci sta, a patto che l’ammontare del reddito da capitale a partire dal quale dovrebbe essere applicato il coefficiente del 150% sia adeguato (la GISO propone 100’000 franchi ma a decidere sarà il Parlamento) e facendo attenzione ad applicare questo coefficiente alle sole imposte federali.
Perché questa limitazione? Perché le imposte federali sono uguali per tutti, mentre le imposte cantonali e comunali sono purtroppo sottoposte a una concorrenza interna per accaparrarsi i cosiddetti “buoni contribuenti”. L’applicazione del coefficiente arrischierebbe di far aumentare questa concorrenza, siccome questi contribuenti sarebbero ancor più “appetitosi”. Una concorrenza a suon di riduzioni di aliquote e moltiplicatori tra enti pubblici che purtroppo è una realtà, alla quale le maggioranze politiche per ora non vogliono mettere dei limiti (qualche anno fa venne respinta un’iniziativa popolare socialista che andava in questa direzione) e che non va favorita.
Questi sono dei “particolari” importanti che la legge dovrà assolutamente disciplinare in caso di successo di questa interessante e coraggiosa iniziativa.
Maggiori informazioni qui: https://99percento.ch/

 

Ma allora proprio non si vuol capire

Il deputato Pamini ha sfornato una proposta quantomeno bizzarra sul salario minimo: un salario minimo solo per i residenti. Questo dimostra come alcuni non capiscano (o facciano finta non capire) alcuni elementi fondamentali del problema riguardante la situazione del mercato del lavoro.
Il popolo ha accettato l’idea del salario minimo per un motivo semplice. Senza questa misura possono venir proposti posti di lavoro a condizioni salariali troppo basse e dunque di fatto inaccettabili per un lavoratore residente in Ticino, ma al contempo sufficienti e dunque accettabili (o persino vantaggiose) per un lavoratore frontaliere che può beneficiare di un costo della vita marcatamente più basso rispetto al nostro. Con l’introduzione di un salario minimo tarato sul Ticino e uguale per tutti, invece, un datore di lavoro non potrebbe più ingaggiare un lavoratore frontaliere offrendogli un salario inferiore al minimo necessario per vivere in Ticino. Sparirebbero dunque quei posti di lavoro che di fatto possono ora essere accettati solo dai frontalieri, che in Italia possono vivere dignitosamente anche con un salario inferiore al minimo necessario per vivere dignitosamente in Ticino. Inoltre, con l’introduzione di un salario minimo generalizzato, il datore di lavoro non avrebbe più alcun incentivo di tipo economico per preferire un lavoratore frontaliere a un lavoratore residente per lo stesso posto: entrambi gli costerebbero lo stesso.
Se come dice Pamini si decidesse di applicare il salario minimo solo per chi vive in Ticino, è evidente che il fenomeno sopra evidenziato non sparirebbe e che la misura del salario minimo per residenti non servirebbe a nulla. Anzi, probabilmente risulterebbe addirittura controproducente. Perché controproducente? Perché i lavoratori residenti non potrebbero più nemmeno volendo accedere a tutta una serie di posti di lavoro offerti a condizioni salariali inferiori a quelle sancite dal salario minimo per i residenti, posti che quindi finirebbero inesorabilmente in mano ai lavoratori frontalieri. Paradossalmente, se proprio si volessero fare distinzioni che è meglio evitare, affinché il sistema sia efficace, si dovrebbe allora piuttosto applicare un salario minimo tarato sul Ticino ai soli lavoratori frontalieri.
E’ probabile che con un salario minimo generalizzato i frontalieri avrebbero paghe più alte rispetto ad ora. Forse, ma se l’obiettivo è di permettere ai residenti di accettare lavori che, se pagati troppo poco, sono di fatto inaccettabili, questo effetto è inevitabile.
Nessun datore di lavoro, dice Pamini, assumerebbe chi non è capace di produrre almeno l’equivalente del costo lordo del suo salario; quindi con un salario minimo troppo alto ci sarebbero dei problemi all’assunzione. Può darsi. Ma perché allora deve essere lo stato sociale, quindi la collettività, i contribuenti, a mettere la differenza tra quanto prodotto dal lavoratore e il suo salario?
La battaglia per un salario minimo giusto è prima di tutto una battaglia di civiltà, sulla quale non va fatta confusione.

Il dibattito non è un fastidio, ma un esercizio di democrazia

«Questa pesante opposizione di una sorta di establishment scolastico mi lascia perplesso e mi infastidisce. Sembra quasi proibito proporre un metodo d’insegnamento diverso. E forse una parte dell’opposizione va ricondotta proprio alla difficoltà nell’insegnare la civica. Anche per questa ragione ritengo necessari degli specifici corsi per i docenti». Queste le parole di Fulvio Pelli a proposito del clima che si sta creando attorno alla votazione popolare del 24 settembre su civica e educazione alla cittadinanza.

Siccome ancora una volta si parla degli insegnanti e di tutte le figure professionali che ruotano attorno alla scuola, mi corre l’obbligo di precisare che la modifica di legge su cui voteranno i cittadini non propone, per fortuna, alcuna modifica metodologica inerente all’insegnamento della civica, metodologia dell’insegnamento comunemente chiamata didattica, oggetto di numerosi corsi nel quadro delle abilitazioni e della formazione continua degli insegnanti di cui purtroppo Pelli non sembra essere al corrente. La modifica è di carattere organizzativo, che è ben altra cosa, elemento che può facilitare o complicare la vita ai professionisti dell’educazione esattamente come una certa organizzazione di un ospedale può rendere la vita più facile o difficile a medici e infermieri.

Quello che Pelli ha chiamato in tono negativo “establishment scolastico” sta dicendo chiaramente che questa modifica organizzativa non aiuta, anzi rende le cose più difficili. Curioso che ciò venga vissuto come un fastidio.

Infastidirebbe davvero sentire i medici e gli infermieri dire la loro sull’organizzazione dei reparti di cura? Infastidirebbe sentire gli avvocati sull’organizzazione dei tribunali? Infastidirebbe sentire i contadini su una diversa organizzazione della politica agricola? Infastidirebbe sentire i dirigenti di banca pronunciarsi su delle modifiche di legge inerenti l’operato degli istituti di credito? Infastidirebbe sentire i municipali dire la loro su modifiche di legge inerenti ai Comuni? A me non pare. Per questo il fastidio di Fulvio Pelli mi pare poco appropriato, a meno di voler considerare gli insegnanti e i direttori scolastici dei semplici esecutori, magari poi raccontando al contempo che una volta sì che i maestri erano dei punti di riferimento, quindi l’esatto contrario di chi esegue e sta zitto.

Il mondo della scuola ha il diritto di dire sulla scuola stessa quel che pensa, democraticamente e naturalmente in maniera adeguata; a decidere saranno comunque poi i cittadini. Se democrazia e dibattito infastidiscono, beh il problema allora mi pare sia altrove.