Non ho assistito alla recente conferenza su scuola e informazione di Ernesto Galli della Loggia, ma leggendo il commento su questo giornale di sabato 27 ottobre a firma di Giancarlo Dillena mi sento in dovere di condividere con i lettori alcune riflessioni.
Nel suo scritto Dillena accomuna mondo dell’informazione e scuola, ambedue a suo modo di vedere in crisi per ragioni analoghe. Per la scuola (non mi occuperò qui dell’informazione) il problema sarebbe costituito da un cedimento nella trasmissione delle conoscenze, perché essa sarebbe impegnata a “socializzare, integrare, parificare”. Spazio quindi alla nostalgia romantica di quando la scuola, secondo Dillena, badava solo ai contenuti, la trasmissione della conoscenza avveniva in un rapporto impari fra docente e discente e tutto andava bene o benissimo. Parte di quella scuola l’ho fatta anch’io quand’ero ragazzo e purtroppo, accanto al ricordo di docenti e professori bravi o molto bravi, capaci di interessare la classe e appassionati della loro professione, rimane il ricordo di altri del tutto inadeguati all’insegnamento, ai quali un minimo di metodo avrebbe fatto un gran bene. Senza poi parlare della scuola delle botte e delle punizioni degradanti per gli allievi, che non è poi così lontana nel tempo.
Ma cosa succede nella scuola odierna? Contrariamente a quanto sostenuto da Dillena, anche nella scuola di oggi i contenuti sono al centro e il rapporto tra insegnanti e allievi, e non potrebbe essere altrimenti, rimane asimmetrico. Accanto al “cosa”, che resta il nucleo dell’insegnamento, sono state però sviluppate da decenni le metodologie, il “come”, affinché le conoscenze potessero essere meglio trasmesse. Non mi pare che ciò costituisca un problema. Lo stesso Galli della Loggia (ho letto in un resoconto) ricordava positivamente la funzione della scuola quale “ascensore sociale”. Tale funzione può avere tanto più successo quanto più gli allievi, soprattutto quelli che provengono da famiglie culturalmente meno favorite, possono essere accompagnati adeguatamente verso l’apprendimento delle conoscenze e non semplicemente “gettati” nell’acqua fredda della conoscenza con insegnanti e genitori sulla riva a osservare chi galleggia e chi annega.
In questo ambito è bene spazzare il campo da una falsità spesso riproposta (a proposito di problemi del mondo dell’informazione e fake news), secondo cui nella scuola odierna le competenze avrebbero sostituito le conoscenze, come se le due cose fossero mutualmente esclusive. Praticamente tutti i piani di studio in Svizzera sono declinati per competenze, quelli del postobbligo (liceo e scuole professionali) da molto, quelli della scuola dell’obbligo da qualche anno, ma le conoscenze (e le abilità) sono componenti delle competenze, ne fanno parte. Non vi è quindi contrapposizione tra competenze e conoscenze. La competenza è la capacità dimostrata da un soggetto di utilizzare le conoscenze (che deve apprendere soprattutto a scuola), le abilità e le attitudini in situazioni di lavoro o di studio, nello sviluppo professionale o personale. Unire conoscenza e capacità, sapere e attitudini non significa negare l’importanza fondamentale della conoscenza, che rimane il fulcro dell’insegnamento. Significa piuttosto mettere in atto una scuola più completa, capace di attrezzare per la vita tutti gli allievi, avvicinandoli a un sapere che altrimenti risulterebbe estraneo a molti.
Se la società di oggi è più ignorante (lo sostiene Dillena, ma andrebbe verificato scientificamente), più diffidente e spesso più aggressiva di quella del passato, è probabile che la scuola abbia qualche responsabilità. Ma sulla diffidenza e l’aggressività una responsabilità ben maggiore ce l’ha di sicuro quella corrente politica che dagli anni ’80 del secolo scorso, politicamente coincidenti con l’arrivo al potere di Thatcher e Reagan, ha intenzionalmente sabotato tutto ciò che era pubblico, di tutti, condiviso e cooperativo, presentando il successo economico come base del successo tout court in nome di una competizione elevata a metodo e valore. Un cambiamento culturale, ma sarebbe meglio parlare di regresso culturale, di cui oggi, dopo quasi 40 anni, vediamo i molti effetti negativi. Anche i media si sono messi a elevare gli imprenditori di successo al ruolo di “maîtres à penser”, relegando in secondo piano i “noiosi” intellettuali e studiosi, anche quando i primi non hanno oggettivamente cose interessanti da dire. Non parliamo poi della politica, nella quale il cursus honorum, la gavetta, oggi conta molto meno di una presunta capacità dimostrata altrove (i casi Berlusconi e Trump mi paiono paradigmatici).
La scuola di oggi deve trasmettere conoscenza, ma deve farlo adeguatamente, curando anche le metodologie. Soprattutto oggi è nell’interesse della collettività che, almeno nella scuola dell’obbligo, tutti possano essere accompagnati nella propria formazione il più lontano possibile, perché la società della digitalizzazione chiederà ai cittadini sempre più adattamento e flessibilità. Lasciare indietro un numero importante di persone, oltre che essere ingiusto, creerebbe in prospettiva problemi sociali che tutti, chi per senso di giustizia, chi per semplice e cinica convenienza, abbiamo interesse ad evitare.
Pubblicato sul Corriere del Ticino, ottobre/novembre 2018