La sostituzione di una parte della manodopera residente con personale frontaliere preoccupa molti, indigna parecchi e fa scorrere fiumi di inchiostro, ma al di là delle tante parole la domanda è una sola: cosa possiamo concretamente fare per arginare questo fenomeno?
C’è chi vorrebbe rompere i bilaterali e tornare al sistema previgente, cosa che implica l’isolamento economico della Svizzera in mezzo ad un’Europa in crisi. Possiamo permettercelo? Nessuno può dare risposte certe, ma a mio avviso si tratta di una strada estremamente pericolosa per un Paese che vive di esportazione, perché a “saltare” non sarebbe solo l’accordo sulla libera circolazione delle persone, ma tutti gli accordi bilaterali, tra cui anche i molti a noi favorevoli. C’è chi crede che in fondo le cose vanno relativamente bene, come ci dicono da Berna e come affermano le associazioni economiche, con poca considerazione degli effetti che questo fenomeno sta producendo sulle regioni di frontiera.
C’è poi chi insiste da prima dell’entrata in vigore dei bilaterali sulle misure d’accompagnamento, tutte di spettanza interna, quindi con nessuna implicazione internazionale, ma viene ascoltato poco. Io sono tra questi. Abbiamo bisogno di salari minimi dignitosi, che solo la Confederazione può decretare ma che la maggioranza politica svizzera non vuole, come ha ben dimostrato il NO delle Camere all’iniziativa popolare sindacale/socialista.
Abbiamo bisogno di contratti collettivi con norme vincolanti sui salari, minimi e non, che poche associazioni padronali sono disposte a firmare. Abbiamo la necessità di imprese che assumano personale residente con stipendi degni di questo nome e non giochino sul differenziale di salario, ridistribuendo il lavoro localmente.
L’alternativa sono problemi sociali che produrranno più Stato sociale e la necessità di più risorse pubbliche, altro che sgravi fiscali. Delle tre opzioni sul tappeto per rispondere alla domanda che tutti si fanno solo la terza è fattibile e generatrice di pace sociale, le altre sono conflittuali e molto probabilmente dall’esito nettamente peggiore.
Per questo serve un nuovo patto sociale tra lavoro e impresa, quell’elemento che ha contribuito al benessere diffuso nel nostro Paese e che oggi gli egoismi di troppi stanno mettendo a repentaglio.