La storia dell’autogestione nel Luganese comincia un quarto di secolo fa con una festa al parco del Tassino finita male per un intervento esagerato della polizia luganese, continua con l’occupazione degli ex mulini di Viganello (allora Comune staccato da Lugano), che poi improvvisamente vanno a fuoco, poi con la concessione da parte del Cantone del Maglio di Canobbio, con lo sgombero di quell’esperienza dopo qualche anno, con le proteste a Lugano e il reperimento della sede all’ex Macello, poi di recente nuovamente sgomberata e parzialmente demolita.
In un rapporto al Consiglio di Stato del gruppo di studio “Centri socioculturali”, che data ormai del 1999, si può leggere: “L’aspetto globale delle rivendicazioni, l’assenza di piani precisi, la confusione tra attività socioculturale e protesta sociale hanno reso spesso impossibile identificare un nucleo progettuale attorno al quale definire accordi e confini precisi: anche la comprensione limitata a “centro di tempo libero” ha contribuito a rendere difficile il dialogo tra autorità e proponenti. Inoltre, la confusione con l’occupazione di alloggi a scopo abitativo ha reso difficile la ricerca di una soluzione accettabile (cioè politicamente difendibile davanti alla popolazione e se del caso in una votazione popolare). Anche il mettere in primo piano la problematica “giovanile” ha ulteriormente confuso la situazione e resa difficile un’intesa: sembra infatti che la creazione di un Centro socioculturale sia l’unica risposta necessaria di fronte ai “bisogni dei giovani” non ulteriormente analizzati. I Centri giovanili, le associazioni culturali, sociali e sportive rimangono momenti essenziali per una corretta politica culturale che tenga conto anche dei bisogni dei giovani. I Centri socioculturale rappresentano invece un elemento ulteriore in una rete complessa di risposte e non sostituiscono né tolgono valore alle altre istituzioni”. E ancora: “Valutando la situazione delle varie città svizzere si può affermare che la creazione di Centri socioculturali risponde a un bisogno reale: la sua realizzazione va perciò considerata positivamente, anche tenendo conto del difficile momento occupazionale e le profonde mutazioni sociali a cui dobbiamo far fronte.
È da queste conclusioni, come scrivevo in un’interpellanza del 2002 (allora ero granconsigliere), che ha tratto probabilmente origine la decisione del Governo cantonale di offrire agli autogestiti a un certo punto il Maglio di Canobbio, sgomberato il quale anche il Cantone è stato chiamato a collaborare a trovare una soluzione logistica definitiva alternativa a quella che dopo quello sgombero era divenuta la sede dell’autogestione, l’ex Macello di Lugano.
Non se n’è mai fatto nulla per quasi vent’anni, un po’ perché in qualche modo la cosa a Lugano andava tutto sommato bene, un po’ perché alternative convincenti sono difficili da trovare non sussistendo nel tessuto urbano di Lugano degli stabili pubblici effettivamente disponibili.
Purtroppo in questi anni la confusione di cui riferisce il rapporto sopracitato, invece di diminuire, è aumentata. Anche il Municipio di Lugano ha iniziato a confondere le attività socioculturali con le proteste di natura politica avvenute esternamente alla sede dell’autogestione, mescolando fatti deprecabili e da condannare come i reati commessi da alcuni a Molino nuovo, alla stazione, all’immobile di proprietà della Fondazione Vanoni… con il riconoscimento di una sede almeno tollerata dedicata alla pratica settimanale di attività socioculturali capaci di interessare comunque una parte della popolazione giovanile. La demolizione di una parte dell’ex Macello ha poi fatto il resto, scavando ulteriormente un fossato difficile ora da colmare.
Eppure una soluzione è necessaria. Sia perché l’autogestione, che come dicono in molti non può e non deve essere il tema prioritario della politica, è una realtà conosciuta in molte città, quindi non una bizzarria luganese, sia perché è nell’interesse di tutti trovare un modus vivendi pragmatico che questa realtà, che può piacere o meno, la riconosca in qualche modo.
Bisogna partire dal reciproco riconoscimento, sia in termini di legittimità che di modalità di funzionamento. Il Municipio dovrebbe riconoscere che il soggetto ‘autogestione’ esiste, dovrebbe astenersi dal chiedergli di funzionare in maniera diversa da come funziona, ma reciprocamente questo deve in qualche modo avvenire anche da parte degli autogestiti nei confronti del Municipio. Per questo reciproco riconoscimento non servono contratti o proclami, bastano atti anche indiretti che comincino a creare un minimo di contatto positivo.
Il primo atto concreto da parte del Municipio di Lugano potrebbe essere la concessione di un luogo dove transitoriamente permettere agli autogestiti di tenere le loro assemblee riservatamente, raduni necessari per cercare di costruire una loro posizione sul da farsi e quindi una possibile pista di soluzione. Paradossalmente, infatti, la distruzione della loro sede impedisce all’autogestione di decidere cosa fare, non potendo più discuterne a modo loro per mancanza di un luogo dedicato a questo scopo.
Poi serve almeno una persona che possa fare da tramite tra Municipio e autogestiti, recapitando per il momento i diversi messaggi che le parti vorranno indirizzarsi. Non si tratterebbe ancora di un mediatore o di una mediatrice, ma di un ‘postino’ capace di riportare i messaggi per quelli che sono, permettendo alle due parti di iniziare a parlarsi.
Se questo avverrà, allora si potrà costruire una mediazione e a parlare di soluzioni possibili.
E il Cantone?
Il Cantone deve aiutare la città a trovare una sede alternativa, cosa per la quale si è impegnato vent’anni fa e che peraltro ha fatto nell’ambito del gruppo di lavoro attivo nei mesi scorsi. Una proposta logistica c’è, non è particolarmente attrattiva, va detto, ma la difficoltà a trovare un luogo di proprietà cantonale o comunale in città è oggettiva e non può essere superata semplicemente dicendo ‘ bisogna fare qualcosa’.
Poi potrà cercare una figura mediatrice, anche se per ora le condizioni preliminari per una mediazione non sono ancora date. Ci si dovrà arrivare, è interesse di tutti ed è l’unico modo per uscirne, ma ci si deve lavorare ancora sopra, con atti di distensione propedeutici a far partire un dialogo almeno indiretto.
Rimangono le contradizioni, difficili da gestire nel contesto dello Stato di diritto. Gestire attività aperte al pubblico senza rispettare le leggi che usualmente governano queste cose, in ambito di esercizi pubblici, di sicurezza, di responsabilità verso i vicini ecc. pone oggettivamente un problema. Il pragmatismo impone però di saper superare il pur giusto formalismo, tenendo conto della proporzionalità e della posta in gioco. Non perché l’autogestione debba avere più diritti degli altri, ma perché una società democratica forte è capace anche di includere questa esperienza diversa senza andare in crisi.
Dietro questa esperienza per molti ragazzi c’è comunque passione e partecipazione, che rimangono elementi positivi e segni di una gioventù viva, diversa da quella che va al cinema, che fa sport o cultura nel quadro delle associazioni dedicate a ciò, che si ritrova al solito bar, ma comunque viva.
Giugno 2021